sabato 5 novembre 2011

Il sogno del ragazzo che voleva andare a Yellowstone.

II passaggio dal sogno al risveglio può essere la più dolce delle rivoluzioni intraprese in un istante; sì, dolce, perché quando ci si accoccola nel ricordo, nei momenti di silenzio che accompagnano alla colazione, pare che l’emanazione amabile delle immagini non ci lasci; dolce, perché se ci sforziamo di ricordare, si merita per impegno un viaggio che apparteneva unicamente alla fantasia. Il sogno, seppur sia un passato mai trascorso, quando splende di verità espandente può essere conquistato; l’impegno a ricordare è per me un’estensione mnemonica del passaggio veglia-risveglio.

Mi sono sognata sul pendio di una collina, al riparo di una galleria scavata entro la roccia; la cima del colle mi privilegiava della vista di una città incastonata tra le montagne, e le ore che preparano al tramonto avevano disposto nel cielo i colori tranquilli e acquosi dei libri per l’infanzia. Ero felice; ero felice di poter contemplare un panorama di cime e di nuvole perlacee e gentili. C’era un ragazzo con me, mi aveva presto accompagnato a recuperare degli scatoloni, in cui libri di musica, di arte, di storia, di fotografia, giacevano intatti e ordinati; erano stati abbandonati sulla collina e sembravano mai stati aperti prima; erano manuali pregevolissimi, solo a guardarli arricchivano lo spirito ed  io li sfogliavo incantata e onorata; erano miei solo perché li avevo recuperati.

Il ragazzo, con voce franca, ferma e pacata mi parlava della sua vita, dei progetti intrapresi e del sogno di avere in futuro una famiglia. Diceva che avrebbe voluto costruire una bellezza tutta sua, parlava del desiderio di portare i figli, che sperava di avere in futuro, al parco di Yellowstone; il ragazzo, giovane nel volto e adulto nel tono e negli intenti, era serio e sereno; Yellowstone era solo un progetto ipotetico che lo faceva sorridere ad immaginarlo, il vero sogno che riempiva quell’uomo erano i valori e gli affetti. Se Yellowstone è la cifra simbolica dei sogni-progetto di quel ragazzo, il mio sogno-reale diventa grammatica, una base per comprendere i simboli rivelatori dei miei sogni, un piano per la costruzione di una Bellezza a cui io aspiro.

Sognare, è il tentativo vittorioso di essere in due luoghi nello stes­so tempo, e nel ricordo della visione la percezione del mondo si amplia di possibilità. Come nel sogno possiamo fare un ritrovamento casuale e fortuito, incontrare persone placide che rendono felici solo ad ascoltarle, ci sentiamo incentivati a credere nelle bellezza dei sogni: a chi crede che la bellezza a cui si fa qui riferimento assomigli ad un’aspettativa, a chi pensa che si tratti di un'attesa prolungata senza sapere cosa, noi rispondiamo che non stiamo assecondando un ordine, non ci stiamo mettendo in ghingheri per una festa pianificata per una data precisa, perché il nostro impulso deriva dalla sensibilità per le cose distanti. Il sogno è la possibilità del viaggio, e dà significato alle ambizioni del cuore che cercano immagini (altrimenti sarebbe­ro solo sensazioni).

Se sappiamo sentire la dolcezza che proviamo al risveglio, possiamo tornare al movimento che abbiamo nel sogno e le immagini possono diventare simboli di qualcosa di ulteriore- della speranza, del desiderio che la bellezza espandente si possa afferrare, meritare, promuovere. Quando prolunghiamo la sensazione del sogno, quando ci impegnamo a dare colore, parole, significati ai nostri simboli, al contempo stiamo già immaginando il nostro progetto di vita, e senza saperlo, stiamo lavorando sugli altri aspetti che quel sogno può offrire.

lunedì 31 ottobre 2011

La bontà del destino

Se crediamo nella bontà del destino, immaginiamo abbia predisposto  percorsi, inclusi in un progetto più grande rispetto a quello che desideriamo per noi. Se potessi gestire il mio percorso obbligherei adesso il destino a dispormi verso le mie radici: vorrei scegliermi una vita accanto alle migliori amicizie contratte finora. Tuttavia, nel delizioso dramma dell’esistenza, liberamente ispirato all’aleatorio lancio di dadi, i desideri rimangono sospesi nella geografia astrale di cui siamo innamora­ti, e la schietta realtà del vivere ci fa preferire alla necessità della vita le aspirazioni celesti dei sogni.
In una geografia immaginaria, in cui sappiamo sognare congiunzioni astrali inaspettate dalle previsioni, è il potere dell’affetto a vincere su ogni reale libertà di movimento, e dunque di spirito.
Se potessi, se avessi la gestione suprema della geografia immaginaria, per la mia vita, io adesso sceglierei biglietti di sola andata per il nostro territorio.

L’amicizia è come l'amore, e per me, almeno fino ad oggi,  è forse una condizione superiore di consapevolezza dell’affetto. L’amicizia; credo che l’amicizia abbia il potere sublime della geografia immaginaria, perché il solo pensiero di provare affetto, insieme alla speranza di credere di avere almeno un buon amico mi acce­nde, e anche solo indirettamente, smorza la pena di perdere il mio cuore, e mi calma, facendomi orientare da segni astrali su mappe che devo ancora interpretare (e intraprendere).

Se crediamo nelle bontà del destino, immaginiamo preveda l’eterno viaggio verso casa, e anche se sono distante dal quel territorio che ha gettato le basi per il nostro incontro, credo che la casa sia più simile alla destinazione della felicità. Le mappe che teniamo e che scambiamo tra di noi le abbiamo sempre, senza che queste siano per forza a por­tata di mano.

L’amicizia mi fa attraversare questa città e mi orienta verso la più giusta delle direzioni che un progetto del destino (in cui io ho fede) ha stabilito per me. Penso agli amici adesso, e in parte mi viene da dubitare sulla bontà del destino; non se ringraziarlo per averli disposti sul mio percorso, o se denunciarlo per i difetti, per  le pieghe, per le distanze che con tocco di zip mi allontanano da loro, o per le rivoluzioni astrali che tardano ad iniziare.
Risolvo il mio dubbio pensando sinceramente a loro: gli amici sono la mappa della sicurezza che ho interiorizzato, e se dovessi smarrire ogni riferimento sul mio passato, so che sarà sufficiente pensare a loro per avere un'aria di familiarità sulla geografia reale che mi orienta verso le situazioni più diverse, e più distanti, dalle esperienze pregresse. Penso agli amici e sento sicurezza; i desideri di controllo sul mio destino e i timori del futuro, perdono ogni potere suggestivo sulla mia facoltà di vivere, pensare e agire; penso agli amici e acquisto fede nella bontà del destino; a rimorchio, credo nella bontà del destino perché credo nei miei amici.

(Ci rivediamo presto.) E

venerdì 16 settembre 2011

Le parole evocano immagini.

Tenevo stretta il mio pelouche preferito, un’enorme mascotte lanosa che abbracciavo perché mi  proteggesse. Suor Annarosa, la preside,  aveva salutato la classe per augurare un sifaperdire felice ingresso al collegio e mi si era fermata davanti per chiedermi se il mio, fosse un orsacchiotto. No, suora, è un ornitorinco.
Pagina 116  “..è una razza estinta come l’ornitorinco[..]”.
Le parole perdono immagini. È strano come le immagini interrompano i romanzi che leggo per distrarmi dal mio pensare; leggo per volteggiare per mondi altrui, per distrarmi da me stessa, e invece, ad ogni riga, ripiombo sulla mia vita e penso e penso.
Provo a riprendere la lettura ma mi fermo ancora: mentalmente vedo la farfalla gialla di ieri, mi si era fermata a pochi centimentri dal mio libro; sorrido e poi rido nel rivedere me stessa, impaurita,  che ziz-zago col busto per schivare le tre api che oggi al tavolo mi svolazzavano intorno. Michele suggeriva si, di non fare attenzione al gironzolare dei loro aculei, perché innocue, ma forse le mie fobie infantili sugli insetti sono state quasi più forti delle sue parole. Le immagini mi hanno vinto sulle parole.
Quest’estate –raccontavo al Sardins mentre con il cucchiaio racchettavo gli insetti- per due o tre giorni di seguito un’ape è venuta a farmi visita; nel pomeriggio si fermava sul mio lavandino e aspettava che la abbeverassi. Che pirla d’apina-  pensavo,mentre le aprivo il rubinetto- con tutti gli acquai di Trieste vieni qui.
E intanto un vecchino, ad un tavolo poco distante dal nostro parlava di farfalle e spiegava ai suoi commensali di quanto siano fasulle le storie sull’estensione della vita della farfalla. Alcune farfalle vivino fino a due o tre anni, chiosava – mille! Pensai;  Michele sorrideva.

Note:
Qualcuno mi diceva che parlo con le verdure senza farci caso. Oggi sono sicura di aver detto ad un’ape “guarda che io giocavo a tennis”.

venerdì 9 settembre 2011

Autumn, colour me Beautiful!

Vorrei tremendamente camminare, e se ora potessi uscire penso che mi immetterei sulla strada per il Viale XX Settembre.  Quanto mi piace! Amo sentire sbadatamente il brusio dei crocchi seduti ai tavolini a fare l’aperitivo e amo guardare la corteccia dei platani che cambia colore nel decorso delle stagioni; e le foglie? Penso che non potrei fare a meno di far scricchiolare le foglie sotto le suole. Via, via, fantastico ancora un po’ per arrivare alla mia vecchia casa in via Giulia 45; guardo dall’altra parte della strada per ricordarmi che ho avuto il kebab più famoso di Trieste come dirimpettaio. Ricordo gli ex vicini di casa, mi ero appassionata alle storie intrecciate su di loro, ed ero anche deliziosamente innamorata  della coppia che stava all’ultimo piano. Non so, emanavano un senso di pace, li vedevo sempre sereni. E il loro gatto grigio? Oh, chissà.
Il the è diventato freddo,  il mal di testa va e viene, l’aerosol fa il suo effetto e i vicini non stanno facendo rumore. Oggi ho sentito i dirimpettai del quarto piano dire che in Canada gli spaghetti vengono cucinati sulla piastra, la signora del terzo ha urlato meno del solito ed io alle cinque, mentre mettevo un the a bollire e mi preparavo per andare dal medico, ho annaffiato la piantina di mandarino che mi ha portato Marco L. Marco dice che le devo parlare e che devo tastare quotidianamente il terreno per capire se ha bisogno di cure- mi chiedo, come faccio a capire come sta un vegetale se io stessa non mi ero accorta di avere un blocco di sinusite? Non capisco mai come sto, Piero mi ha detto che il mio è un bene, perché perdere la percezione di spazio e tempo e contatto con la materia permette di non sentire il dolore. Mah, non so. A proposito, devo scrivere a Piero,  spero che stia bene.
O piantina di mandarino, non mi abbandonerai anche tu? Marco P. mi aveva regalato un’orchidea che aveva rovinosamente incontrato la propria disfatta una settimana  dopo che stava nelle mie mani. Ma non potete lasciarmi un gatto, un cane da curare? Sono così a mio agio con gli animali. Mi mancano i miei, mi mancano spaventosamente. Disegnerò un gatto magari, domani. Ora chiudo e leggo Hemingway, ho tre foglie di alloro che mi tengono il segno su pagina 107- non ditemi che il vecchio uccide il pesce.
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note:

mi abbuonano le ore di tirocinio ? o forse finisco in Biennale, mah.
colloquio a breve
visitare Grado e imprimere tutto lo iodio possibile nelle vie respiratorie
é già il 10 (volontà di Potenza!) Settembre
tempesta di intuizioni dove sei ?