martedì 6 settembre 2016

L'educazione alla gioia (Milano, casa di Giulia)

-Ora che sei qui, puoi lanciare i dadi.-

Erano le dieci e mezza, lui era carico di speranze; e guardò all’insù, biascicando qualcosa fra le labbra, come se avesse una preghiera; poi disse: -Siamo qui solo per dare un occhio. Per vedere se diventiamo dei fuggitivi: ancora niente, nessuna controindicazione. Ora sta a te decidere che fare, io ti dico: pensaci.-  Lei lo guardò; gli sembrò un pezzo di ghiaccio.- Il buio calava piano piano, avvolgendo di una patina ombrosa lo specchio del cielo, come d'un velluto nero, insieme alla grande casa della sua infanzia, lì davanti. Quelli che portavano fuori i cani stavano passando lì vicino ai due, dal marciapiede che si srotolava parallelo alla terrazza di ingresso della casa, lucido nastro di ciottoli; le sgocciolature d'un cielo sempre più scuro avevano dato una velatura di piombo e d’argento alla facciata dell’abitazione. I bagliori di poco prima andavano a poco a poco scolorendosi, si facevano scuri. E anche la strada s'immergeva nel silenzio, con quella folata calda, quell’aria calda, al calar della notte, cullava la città. Il sonno della notte impregnava i corpi, e seppur così vivaci poco prima, i due si erano fatti silenziosi. S'erano avvicinati l'una all’altro per sentirsi meglio. D’un tratto erano stati accesi i lampioncini in giardino che spandevano lungo il terreno umido la luce dorata e vivace. Filippo avrebbe voluto che lei si cingesse a lui, che lo cercasse, che provasse almeno sonno. La sua speranza di poco prima s'era tramutata in una richiesta, una tenerezza tirata, una preghiera che lei sentisse un sentimento qualsiasi, che avesse una richiesta qualsiasi, una conferma che fosse soggetta alle debolezze degli umani.