venerdì 27 marzo 2020

i Greci hanno pensato in termini di Essere, hanno lasciato cadere il vivere

...) ci sono stati duemila anni di cristianesimo che hanno fatto di tutto per rendere non interessante il testo di Giovanni, a partire dalla traduzione. Nel prologo del Vangelo di Giovanni troviamo scritto egheneto, che significa “avvenne”, e il traduttore si industria a variare questo termine, mentre bisogna conservarlo nella ripetizione che forma un concetto. Si tratta di pensare l’avvento, il rapporto con l’altro, pensare l’esistenza, e dunque si tratta di risorse e di risorse attive. Lo stesso vale per la distinzione fra psyché e zoé; non capisco, pur non essendo cristiano come molte altre persone, che mi si faccia leggere la frase di Giovanni “Chi ama la propria vita la perde” come una formula che non si comprende in francese. Ma se mantengo la distinzione, “chi ama la propria vita” in quanto psyché, il semplice essere in vita, “perde la sua vita”, in quanto pienezza di vita, zoé in greco, allora capisco. E quando al contrario trovo scritto che “chi rinuncia alla propria vita (nel senso di vitale, psyché) si apre alla vita (vivente, zoé)”, allora comprendo e molto bene. Trovo aberrante che si sia conservata una non intelligenza del testo biblico, in questo caso evangelico, mentre in greco la cosa è chiara, netta. È davvero qualcosa di inaccettabile.
François Jullien, pensare il vivere
Contraddizione e singolare

martedì 24 marzo 2020

Che cos’è il tempo?

Edoardo Boncinelli

Che cos’è il tempo?

Il fatto è che non c’è lo strumento, l’organo. Non hai un occhio, non hai un naso, non hai una lingua per sentire il tempo. Hai solo la memoria che, ricollegando certe cose, permette l’invenzione del tempo.

Tra l’altro la parola tempo non c’è in tutte le lingue, effettivamente è una cosa estremamente artificiosa. Mentre prima si favoleggiava di un terzo occhio – si parlava della pituitaria – si è visto che esiste una popolazione di cellule gangliari della retina poche, non piú di una su mille – che invece di vedere misurano grosso modo la lunghezza della giornata di luce.

Il ritmo ce l’hanno dentro le singole cellule. Non solo il cervello, come si pensava, ma le singole cellule, anche le cellule del fegato, hanno un ritmo di ventiquattr’ore.
Però non c’è un marcatempo, non c’è un orologio che ti permetta di dire un giorno, due giorni, tre giorni, quattro giorni. Ti permette solo di scandire un giorno, un giorno, un giorno.

La teoria psicologica del tempo, del presente, del presente dinamico, dice che l’atomo di coscienza dura da un quarto di secondo a venti- trenta secondi, con una media di tre secondi. Noi viviamo il mondo a flash che durano tre secondi.

domenica 15 marzo 2020

worried moon

Mi era capitata tra le mani una poesia di Yeats in cui il poeta irlandese auspicava che tutte le parole che aveva raccolto e scritto aprissero instancabili le ali e non fermandosi mai nel loro volo giungessero alla persona a cui erano destinate; di certo non possiamo sapere con esattezza chi o quanti saranno i destinatari. Ti è mai capitato di andare per qualche mercatino e trovare vecchie lettere, quelle che i rigattieri scovano nelle soffitte per rivenderle come pezzi di antiquariato? Io spesso mi fermo a leggerle e anche se non posso conoscerne i personaggi coinvolti riesco benissimo a immaginarmi le storie - sono un destinatario o un pubblico impiccione che si appropria di parole e quindi ricordi e storie altrui?

Da poco mi sono appassionata alla lettura di racconti chassidici; uno di questi afferma che se le parole espresse non trovano persone capaci di accoglierle queste tornano alla persona che le ha pronunciate e non andranno sprecate; un’altra bellissima storia che mi viene in mente è ambientata nel periodo dei pogrom - in cui gli oppressori gettavano nei roghi i rotoli della Torah insieme a corpi vessati degli oppressi, normalmente rabbini. Si narra che una volta qualcuno chiese al rabbino morente che cosa vedesse: Le pagine bruciano - rispose- ma le lettere volano; si innalzano per raggiungere chi è in grado di leggere in spirito di verità, così come in spirito di verità esse sono state scritte.

Ho l’impressione costante di non avere mai nulla da dire e di usare soltanto delle parole che danno un senso approssimativo alle mie emozioni. Ultimamente mi capita di guardare la luna dalla finestra - si capisce che in questi giorni le interazioni sono limitate - e mi sento come il personaggio della canzone di Cornell, Worried Moon, che guardando la luna chiede di rivelargli quello che lei sai, lei che ha una visione privilegiata (You see further down the road) - anzi, confesso di ascoltare quella canzone in loop, forse è come dice Nick Horny (in 31 songs o in Alta Fedeltà, non mi ricordo più), ovvero che si tende ad ascoltare una canzone all’infinito solo quando si ha bisogno di risolverla: I'm afraid of what's to come / Worried moon Yeah, tell me what you know / Worried moon / You see further down the road

lunedì 2 marzo 2020

occorre rifarsi a un differente principio di intelligibilità che ci immerga «dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana»

Noi, oggi, possiamo ancora dirci poeti?

Nel rispondere a questa domanda bisognerà anzitutto tenere in considerazione che «i fatti umani non possono misurarsi con il criterio di [una] rettilinea e rigida regola mentale: occorre considerarli, invece, con quella misura flessibile di Lesbo, che, lungi dal voler conformare i corpi a sé, si snodava in tutti i sensi per adattare se stessa alle diverse forme dei corpi» 23. In altri termini, occorre rifarsi a un differente principio di intelligibilità che ci immerga «dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» (SN44, § 331) e riscopra in essa un’ecce- denza che sfugge alle trame del discorso descrittivo e razionale. Per questa via giungiamo a quello che Baldine Saint Girons (parafrasando Freud) ha definito «le mythe scientifique de Vico» 24, mito richiamato di continuo nel corso della Scienza Nuova e inteso a immortalare la soglia tra mondo animale e mondo umano, il passaggio dallo stadio ferino all’animal symbolicum.

Possiamo ancora dirci poeti? All'origine di una risposta vichiana - Premio Nuova Estetica della Società Italiana d'Estetica, a cura di L. Russo, Centro Internazionale Studi d'Estetica, Palermo 2013.

noi, oggi, possiamo ancora dirci poeti?


(...)«chiave maestra» della Scienza Nuova di Giambattista Vico è l’ipotesi secondo cui la poesia fu il fare originario che permise ai primi uomini di elaborare una propria conoscenza della realtà, di costruire un proprio linguaggio e di iniziare umanamente a vivere e ad agire (SN44, § 34) 18. Tale poesia, lungi dall’essere il frutto di un’intui- zione pura che oltrepassa il sensibile, fu piuttosto un fare concreto che, rispondendo alla provocazione del mondo 19, proseguì nel tentativo di dare senso alle cose. Come sottolinea Baldine Saint Girons, la parola poesia è qui accepita nel suo senso originario di poiesis, «è un “fare” la cui dignità e la cui ricchezza sfidano la rappresentazione, giacché il fare della poesia è il fare stesso delle “cose umane”» 20. Dall’origina- ria esperienza poetica i primi uomini derivarono l’intero sistema della civiltà: i miti, le religioni, la vita sociale, il diritto, la politica. Sono queste attività contrapposte all’individualistica riflessione di una mente pura che, avvolgendosi su stessa come i ragni si avvolgono nelle loro tele 21, si rivela sterile e svantaggiosa per intendere «la sostanza delle cose agibili nell’umana vita socievole» (SN44, § 161).
Con una scelta francamente inconsueta, e tanto più azzardata per i tempi suoi, Vico contrappone all’immagine statica dell’uomo iper-ra- zionale, la forza dinamica della poesia: «adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie» (SN44, § 375). Con queste parole Vico esprime la convinzione che il pensiero immaginifico delle origini non fu il surrogato di una debolezza della ragione, ma fu piuttosto costitutiva e provvidenziale risorsa congeniale all’umanità nascente. Laddove per noi, oggi, il lin- guaggio poetico, con il suo carico di simbolicità e metaforicità, resta confinato in una sorta di torre d’avorio che rifugge l’ordinaria prassi vitale, all’origine della civiltà esso fu il modo naturale di comunica- re e di conoscere, intendendo “naturale” nel senso di conforme alla natura di tali primi uomini. «E per tutte le finora qui ragionate cose si rovescia tutto ciò che dell’origine della poesia si è detto prima da Platone, poi da Aristotile, infin a’ nostri Patrizi, Scaligeri, Castelvetri» (SN44, § 384). Bersaglio polemico di Vico è qui la boriosa concezione tradizionale che guarda alla poesia come frutto di una dottrina filoso- fica o di un’ars poetica 22. Di contro, Vico afferma con forza che essa nacque «per difetto d’umano raziocinio» (SN44, § 384), legittimando l’ipotesi interpretativa dell’esistenza di un fare poesia non contingente, ma iscritto nella natura di tali primi uomini come iniziale e costitutiva possibilità di dare senso al mondo.
Ma se per i nostri antenati la poesia fu «facultà loro connaturale (perch’erano di tali sensi e di sì fatte fantasie naturalmente forniti») (SN44, § 375) noi, oggi, possiamo ancora dirci poeti?



Possiamo ancora dirci poeti? All'origine di una risposta vichiana.


in Premio Nuova Estetica della Società Italiana d'Estetica, a cura di L. Russo, Centro Internazionale Studi d'Estetica, Palermo 2013.

Ma perché tutta questa stupidità della vita? Cosa dicono i Gamuna?

Effetti della polvere (parliamo di polvere per non nominare virus)
Ma perché tutta questa stupidità della vita? Cosa dicono i Gamuna?
La polvere del deserto è la causa della grande stupidità che si vede dappertutto, dicono, perché la polvere non sta mai ferma, offusca la trasparenza del cielo e stanca gli occhi, stanca il corpo, stanca i pensieri. Scrive la sorella Tran: "La polvere fine che viene dal deserto si insinua in ogni angolo, in ogni stanza, ricopre ogni oggetto, brilla nell'aria in controluce, e niente può bloccarla, né sbarramento, né porta o finestra sigillata. Perciò loro lasciano sempre porte e finestre aperte, affinché la polvere vada dove la porta il vento e non sia irritata da troppi ostacoli...". Se la polvere viene irritata e poi ti entra negli occhi, porta gravi disturbi, dicono i Gamuna: disturbi come il desiderio di non essere mai nati, e la tristezza dei giorni che passano, e la voglia di ammazzare qualcuno per sentirsi più forti. Invece, se si spande liberamente, la polvere del deserto dà a tutto un aspetto stupido o insignificante, ma non porta gravi disturbi mentali. Anzi, in questa forma liberamente volatile spande una virtù fondamentale su tutte le cose, che può infondersi anche negli uomini. "È la virtù di ignorarsi," scrive la Tran, "la virtù di ignorare se stessi come la terra ignora se stessa, di affidarsi all'incanto greve che trascina tutto, senza aver nulla da dire, nulla da lamentare..."
Gianni Celati, Fata Morgana